Il ministro dell’economia boliviano Luis Arce, in visita negli Stati Uniti nei giorni scorsi per illustrare il modello seguito dal governo di Evo Morales, ha dichiarato all’agenzia Afp che “la crescita deve basarsi sul rispetto della madre terra, la madre terra è l’ecologia”, aggiungendo che i paesi che hanno intrapreso il processo di sviluppo ora, lo pagano molto di più, “perché devono usare tecnologie che danneggiano minimamente l’ambiente”.
Davanti ai suoi interlocutori nordamericani, Arce ha avuto modo di vantare il costante sviluppo economico del suo paese, che il Fondo Monetario Internazionale stima per l’anno in corso in crescita del quattro per cento. A ottobre la Bolivia sarà chiamata alle urne per eleggere il nuovo presidente, con la possibilità che a succedere a se stesso sia ancora una volta l’indigeno Evo Morales, fondatore dello Stato Plurinazionale della Bolivia al quale ha dato un modello costituzionale indigenista, dove il 69 per cento della popolazione si considera di etnia quechua o aymara.
La decisione ha scatenato le proteste degli avversari che hanno reclamato il rispetto della volontà popolare uscita dal referendum del 2016 che aveva detto no a una ricandidatura di Evo. Se all’inizio Morales è sembrato non voler opporsi al responso delle urne, alla fine ha ceduto alla campagna orchestrata dai suoi che gli chiedeva di non lasciare, ed è ridisceso in campo grazie a un cavillo legale che tutela il suo diritto umano a ripresentarsi fintanto che i suoi concittadini lo voteranno.
Quelle del prossimo ottobre saranno le elezioni che eleggeranno il presidente che sarà in carica fino al 2025, anno del bicentenario dell’indipendenza dalla Spagna, occasione che, in caso vincesse nuovamente, segnerebbe anche l’apoteosi di un uomo politico ancora anagraficamente abbastanza giovane, che senza dubbio ha fatto molto per il suo paese, ma su cui si addensano sempre più le critiche dei suoi avversari.
Così, non sono passate inosservate le dichiarazioni di Luis Arce. Gli hanno risposto gli ambientalisti denunciando il miracolo economico boliviano, ispirato a loro dire a un modello estrattivista per nulla rispettoso della madre terra, che impone perfino l’abbandono dei territori abitati da parte dei popoli indigeni.
Tra le critiche più contundenti all’indio Morales quella provenuta dal portavoce della Coordinadora Nacional de Pueblos Indígenas para la Defensa de los Territorios y Áreas Protegidas (Contiocap), Álex Villca, che ha ricordato come i boliviani stiano sentendo questo tipo di discorsi da almeno tredici anni, mentre “abbiamo visto che in casa succede tutto il contrario di quello che professano al di fuori delle nostre frontiere.”
Pablo Solón, già ambasciatore di Evo alle Nazioni Unite fino al 2011 e direttore della Fundación Solón che studia gli effetti del cambio climatico, ha affermato che i progetti promossi dal governo non solo non garantiscono un beneficio economico sicuro, ma in molti casi sono addirittura privi degli studi di valutazione d’impatto ambientale.
Nella narrazione politica di Evo Morales la questione del rispetto della Pachamama, la Madre Terra in lingua quechua, è ricorrente. Come pure lo è il suo essere il primo presidente indigeno della storia della Bolivia, colui il quale, con la sua elezione, ha riscattato la stragrande maggioranza degli individui che popolano il paese.
Impegnato nello sviluppo economico della Bolivia, Morales ha eroso col tempo l’appoggio di molte di quelle comunità indigene, promuovendo progetti che hanno riguardato spesso aree naturali dell’Amazzonia boliviana, la cui realizzazione avrebbe comportato il non rispetto dei diritti delle popolazioni e delle ragioni ambientali.
La zona oggi compresa nel Territorio Indígena Parque Nacional Isiboro Sécure (Tipnis), nei dipartimenti di Cochabamba e Beni, fu esplorata negli anni trenta dell’Ottocento dal naturalista francese Alcides D’Orbigny, che ne scrisse come la foresta più bella del mondo. Comprende una riserva di 13.722 chilometri quadrati dove vivono sessantatré comunità indigene, un’area che nella sua parte meridionale è soggetta a un fenomeno di deforestazione provocato dai cocaleros dalle cui file proviene lo stesso Morales, che dei coltivatori di coca è stato sindacalista.
È il rifugio di 858 specie di animali vertebrati, tra cui 470 tipi di uccelli, 108 mammiferi, 39 rettili, 53 anfibi e 188 differenti pesci, ed è l’habitat di 2500 specie di piante, in un territorio che va dai 180 fino ai 3000 metri di altitudine, dove si registrano i massimi di precipitazione atmosferica di tutta la Bolivia con picchi che superano i 3000 millimetri di pioggia all’anno. In quest’area il governo di Morales, non nuovo del resto, ha pensato di costruire una strada che la dividerebbe in due.
Risale al 1990 la prima mobilitazione che promosse la Marcha por el Territorio y la Dignidad’, che dalle terre basse boliviane giunse fino a La Paz, ottenendo il primo riconoscimento da parte dello Stato della natura indigena dei territori dell’Amazzonia.
Da quando è arrivato al potere, Evo è riuscito a consolidare la presenza del Mas, il Movimiento al Socialismo che lo sostiene, anche nell’area del Tipnis, per quanto l’opposizione alla costruzione della strada sia forte, e abbia varcato i confini del paese diventando un caso all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
La protesta della comunità indigena che organizzò una nuova marcia contro il progetto il 25 settembre del 2011 venne duramente repressa a Chaparina, una località tra Beni e La Paz, e fu uno dei momenti di crisi più seri del lungo regno di Evo. Messo sotto accusa per la violenta repressione della polizia contro i circa millecinquecento indigeni in marcia alla volta della capitale in difesa dei propri territori ancestrali, il governo del primo presidente indigeno dovette faticare per rimediare al grande danno d’immagine.
La conseguenza immediata fu allora che Morales accantonò il progetto, e varò una legge che salvava il Tipnis dai danni che la costruzione della strada avrebbe arrecato, dichiarando tutta l’area intangibile. Un progetto che non favoriva le comunità indigene che nella zona vivono, ma di cui avrebbero invece beneficiato in maggior parte i coltivatori di foglie di coca che riforniscono il narcotraffico.
Se dopo la vicenda di Chaparina Evo ha dovuto frenare, nel 2017 è tornato alla carica col progetto di strada mai del tutto accantonato, e ha archiviato con una nuova legge il carattere intangibile della riserva naturale.
Il Parque Nacional y Área Natural de Manejo Integrado, nel nord est del paese, è il secondo scenario dove si esercitano i progetti di Morales che gli hanno attirato le critiche degli ambientalisti e le proteste degli indigeni. Questa volta si tratta della costruzione di due grandi impianti idroelettrici nelle località di El Bala e Chepete che dovrebbero fare della Bolivia il “cuore energetico del Sud America”, contro cui si oppongono vari popoli originari, come i mosetenes, i chimanes, tacanas, uchupiamonas e altri, che vivono nella zona conosciuta come il Madidi, un’area protetta.
Qui il progetto di Evo prevede la produzione di diecimila megawatt di elettricità che dovrebbe portare la Bolivia a quintuplicare la sua capacità di fabbricare energia elettrica, e a diventare paese esportatore a costo di inondare un’area superiore a 771 chilometri quadrati di riserva naturale.
Ciò significherebbe, secondo i dati resi noti da Solón, che a pagare le spese dei nuovi impianti idroelettrici sarebbero in totale 5.164 persone, indigeni e contadini, che dovrebbero trasferirsi dalle zone dove attualmente vivono.
Riguardo ai mega progetti elettrici di Morales, la già citata Fundación Solón stima che, se la cosa andasse in porto, il paese non arriverebbe a rappresentare nemmeno il due per cento della potenza installata nel sub continente americano. Oltre che sul piano ambientale, le accuse al governo vengono anche su quello giuridico, dato che non avrebbe rispettato il dettato costituzionale che prevede la consultazione obbligatoria delle parti interessate, ivi comprese, ovviamente, le comunità che nella zona vivono.
Appare pertanto difficile non concordare con la dichiarazione rilasciata dal leader indigeno Marcial Fabricano al quotidiano boliviano El Deber che oggi pubblica una lunga inchiesta, secondo il quale “nei governi che non avevano un carattere indigeno come l’attuale di Evo Morales, gli indigeni erano più ascoltati e rispettati.”
Sta di fatto che la reazione contraria degli abitanti del Madidi è riuscita a bloccare per il momento il sogno elettrico di Evo Morales, anche se i timori che voglia rimetterlo in atto sono ben presenti. A molto sono servite le denunce in consessi internazionali, come quella che Ruth Alipaz, indigena uchupiamona, ha fatto recentemente al Forum Indigeno dell’Onu, e quelle dei vari ambientalisti che hanno messo in guardia contro cambi ambientali nelle zone interessate che potrebbero essere irreversibili.