Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Committee to Protect Journalists, CPJ), ha reso noto ieri a New York il suo bilancio annuale sugli atti di violenza contro gli operatori dell’informazione nei vari paesi del mondo. Secondo l’organizzazione nata nel 1981 dalla volontà di un gruppo di giornalisti statunitensi con lo scopo di difendere la libertà di stampa, durante l’anno in corso sono stati trenta i giornalisti assassinati nell’esercizio della loro professione, ventuno dei quali sono stati vittime di rappresaglie per aver difeso la copertura delle loro fonti di informazione.
Nella classifica dei Paesi in cui più alta è la violenza contro la stampa, si confermano ancora una volta al top il Messico di Andrés Manuel López Obrador, dove si registra l’assassinio di cinque reporter, e l’Afghanistan. Quanto al Messico, la denuncia che lo vuole come il Paese più violento dell’emisfero occidentale conferma quanto lo scorso settembre era già stato affermato da Jan-Albert Hootsen, rappresentante messicano del CPJ, nel corso di una intervista al quotidiano El Universal.
In quella occasione Hootsen aveva affermato che il Messico non favorisce la libertà di espressione in quanto il presidente López Obrador e i funzionari pubblici squalificano costantemente i mezzi di comunicazione seguendo una precisa strategia finalizzata a distogliere l’attenzione dalla mancanza di risultati del governo federale. Frequenti sono infatti le uscite del presidente messicano e di funzionari del suo governo contro certa stampa, giudicata come avversaria e conservatrice solo perché critica nei confronti dell’operato dell’amministrazione.
Pur riconoscendo che il governo messicano era concentrato nello sforzo di attuare il proprio programma di trasformazione e nel combattere la corruzione, Hootsen denunciava come spesso ciò avvenisse a scapito della garanzia della libertà di espressione. Una situazione che metteva e mette in condizione di vulnerabilità la stampa che già si trova a fare i conti con alti livelli di violenza e impunità. A ciò si aggiunge, prosegue CPJ, che spesso López Obrador non ha dimostrato sufficiente volontà politica per combattere l’estesa impunità che fa seguito alle violenze che colpiscono il mondo dell’informazione.
È noto, infatti, che i giornalisti messicani operano in un ambiente in cui imperversa la violenza dei narcotrafficanti e dove la corruzione ha inquinato le fondamenta stesse delle istituzioni, a cominciare da quelle alle quali sarebbe demandata la lotta alla criminalità. A tal punto, si legge nel rapporto di CPJ, che recentemente un assassinio e una serie di minacce ai mezzi di comunicazione da parte di una banda criminale ha decimato l’informazione nella città di Iguala nello stato di Guerrero.
Per quanto riguarda il resto dell’America Latina, CPJ denuncia due assassini in Honduras, uno in Paraguay e un caso di morte di un informatore in Colombia la cui copertura è saltata. Mentre viene denunciata la criminalizzazione della stampa da parte del regime di Daniel Ortega in Nicaragua dove nel novembre del prossimo anno si celebreranno le elezioni presidenziali in condizioni che difficilmente potranno assicurare trasparenza e legalità.
Per il resto del mondo, il rapporto di CPJ denuncia la morte di tre giornalisti nel nord della Siria a causa dei bombardamenti dei piloti russi che operano nella zona. Secondo il report di CPJ che ricorda di star ancora investigando sulla causa della morte di altri quindici giornalisti, l’anno che si chiude ha registrato il minor numero di vittime tra gli operatori dell’informazione dal 2000. Una situazione che si spiegherebbe come un effetto del Covid-19, grazie alle limitazioni agli spostamenti imposte dalla pandemia.