Dopo l’annullamento delle condanne e il recupero dei diritti politici, tutto lascia presagire che l’ex sindacalista Luiz Inácio Lula da Silva possa vincere le elezioni del prossimo ottobre e tornare a governare il Brasile. Molto prima di confermare la sua discesa in campo, Lula si è impegnato in una strategia tesa a recuperare un rapporto con le forze di centro destra che hanno voltato le spalle alla disastrosa esperienza di Bolsonaro, il cui refrain si basa sulla necessità della riconciliazione nazionale dopo la deriva imposta al Paese dall’ex capitano in congedo. Presidente tra il 2003 e il 2011, una delle carte giocate è quella della nostalgia per il periodo del suo governo, vissuto come un’epoca d’oro da molti brasiliani.
In attesa che la sua compagna possa avere inizio ufficialmente dopo che la dirigenza del Partito dei lavoratori avrà approvato il 7 maggio la sua candidatura, Lula ha visto ridursi il suo vantaggio su Bolsonaro, il che fa presupporre un Brasile nuovamente spaccato e ben lontano da ogni intento di riconciliazione. Un recente sondaggio di PoderData da a Lula il 40% delle intenzioni di voto mentre Bolsonaro conferma, e perfino amplia, il suo zoccolo duro del 35%.
L’aumento delle intenzioni di voto per Bolsonaro, che a marzo era al 30%, si spiega con il ritiro dalla corsa presidenziale dell’ex giudice ed ex ministro della Giustizia dell’attuale presidente Sergio Moro, e fotografa lo spostamento a destra della fetta di elettorato che lo avrebbe votato trovando indigeribile qualsiasi ipotesi lulista. Lo stesso trend si registra per l’esito dell’inevitabile secondo turno, dove ora Lula vincerebbe con uno scarto di nove punti su Bolsonaro, mentre lo scorso marzo avrebbe vinto con 14 e all’inizio dell’anno addirittura con 22. Lula avrebbe la meglio nel nordest povero del Paese, mentre Bolsonaro lo sopravanzerebbe nella zona agricola del centro ovest e nel nord. Nel sud e sud est, le zone più ricche, la differenza tra i due starebbe dentro il margine di errore. L’erosione graduale del gradimento di Lula è confermato per altro da altri istituti demoscopici che offrono dati numerici differenti che non smentiscono la sostanza.
A conferma della sua apertura alle forze moderate, Lula ha nominato come candidato vicepresidente il sessantanovenne centrista Geraldo Alckmin, suo ex avversario alle presidenziali del 2006 che perse al ballottaggio ai tempi in cui militava nel Partido de la Socialdemocracia Brasileña (PSDB) di Fernando Henrique Cardoso. Recentemente Alckmin è approdato al Partido Socialista Brasileño (PSB), e la sua candidatura come vice è la conseguenza di un accordo tra il partito di Lula e i socialisti. Ex governatore in due mandati dello Stato di Sao Paulo, la scelta di Alckmin nella strategia di Lula serve ad ampliare la sua base elettorale conquistando il voto dei moderati e a far dimenticare gli scandali di corruzione che hanno caratterizzato l’ultima fase dei governi del Partito dei lavoratori. Una scelta necessaria a sventare il pericolo di una rielezione di Bolsonaro.
La carta dei risultati ottenuti dal suo precedente governo è quindi destinata ad assumere un peso sostanziale nei mesi che mancano al voto. Durante i suoi otto anni di presidenza Lula ha infatti saputo favorire la crescita economica aumentando la spesa pubblica, onorando il pagamento dei debiti con il Fondo Monetario Internazionale e incrementando fino a 288.500 milioni di dollari le riserve valutarie del Paese. In ciò, come altri governanti latinoamericani che hanno condiviso la stessa sorte, è stato favorito dal congiunturale aumento delle materie prime e dal boom delle esportazioni verso la Cina, mentre numerose scoperte di giacimenti petroliferi in oceano hanno trasformato il Paese in una superpotenza energetica.
In campo sociale, il programma Bolsa Família, messo da parte da Bolsonaro, ha fatto uscire dalla povertà estrema 40 milioni di brasiliani, destinando alle famiglie delle somme mensili in cambio della vaccinazione e della frequenza di una scuola per i figli. L’aumento del salario minimo ha consentito a milioni di cittadini di diventare consumatori con beneficio del mercato interno. Se la vita dei poveri è migliorata in misura considerevole, ciò non ha comunque intaccato le profonde disuguaglianze sociali, lasciando sopravvivere un sistema fiscale generoso coi ricchi e le imprese e punitivo con la classe media su cui, con una imposizione equivalente al 32% del PIL, pesano elevate imposte dirette ed indirette in cambio di scadenti servizi pubblici.
Sul piano politico, il Brasile non ha superato il fenomeno legato alla proliferazione dei partiti rappresentati in parlamento, con i quali ogni governo deve trattare l’appoggio in cambio di concessioni a favore delle loro clientele, e rimane anche inalterato il monopolio dei grandi gruppi informativi, con la Red Globo prima di tutti. Non a caso ora impegnata assieme alla stragrande maggioranza dei media nella ricerca di una “terza via” che escluda il pericolo Lula e metta fine al disastroso Bolsonaro.
Nulla è stato fatto poi da Lula sul piano della promessa riforma agraria, laddove le sue politiche si limitarono a un finanziamento della piccola agricoltura famigliare e produssero un leggero aumento dei trasferimenti di proprietà ai lavoratori sem terra rispetto al suo predecessore, il socialdemocratico Cardoso. Una certa continuità con Cardoso si trova persino nella scelta di alcune figure chiave della politica economica, come quella di Henrique Meirelles nominato direttore del Banco Central, e già deputato del partito socialdemocratico di centro destra.
Per quanto riguarda la sua base di appoggio, essa si è trasformata dal 2006 in poi, perdendo il sostegno dei lavoratori e della classe media a favore dell’elettorato più povero che vive nelle zone economicamente più arretrate del Brasile, come il nordest, maggiori beneficiarie delle politiche sociali luliste. L’origine di questa perdita si fa risalire allo scandalo del 2005 dal quale i brasiliani appresero che il partito di Lula aveva preso somme non dichiarate per la campagna del 2002, ridistribuendole tra i suoi alleati. Una pratica illegale ma tradizionalmente tollerata, che tuttavia rovinò per sempre l’immagine del partito.
Sta di fatto che con l’andar del tempo l’appoggio a Lula passa da essere anelito di cambiamento e rottura col passato, a desiderio di poter contare su uno Stato che abbia la forza di migliorare il livello di vita della gente, senza la forza propulsiva della mobilitazione sociale che metta in pericolo gli equilibri esistenti. La sua leadership assume i caratteri di un riformismo debole che si esplicita nello sforzo di una conciliazione permanente con i potentati economici e politici dominanti, dove la dirigenza del partito si trasforma in un braccio burocratizzato che controlla l’apparato, e dove il nucleo originario del PT costituito dai movimenti sociali e dal sindacato diventano secondari.
Il governo di Bolsonaro ha tagliato brutalmente la spesa pubblica, incluso quella che si riferisce alla salute e all’educazione, approfondendo il modello neoliberista che era stato introdotto in Brasile agli inizi del 1990. Mentre la gestione della pandemia lo ha reso il secondo Paese al mondo dopo gli USA per numero di vittime. La fame è tornata ad essere un problema di massa con una inflazione del 10,41% lo scorso anno, il che ha fatto sì che circa 41 milioni di persone stiano vivendo al di sotto della soglia della povertà, con una rendita mensile di 15,6 dollari. Prima di Bolsonaro, il Brasile era uscito dalla mappa mondiale della fame della FAO, e con lui al governo ci è tornato, pur essendo il secondo produttore di carne vaccina al mondo, un alimento vietato ormai ai poveri, costretti anche a fare i conti con l’aumento del 60%, 75% di riso e fagioli, alimenti di base del Paese.
Sta di fatto che il bolsonarismo rimarrà una caratteristica del panorama politico del Brasile, al di là di quanto la sorte riserverà al presidente. A tutti gli effetti, il suo è un caso che lo fa assomigliare a Donald Trump, nonostante la caduta verticale della sua popolarità. Che poi costituiscano un serio pericolo le sue minacce golpiste, di fronte al poco interesse che sembra animare le gerarchie militari ad imbarcarsi in avventure, è tutto da vedere. Mentre rimane più probabile che i militari eserciteranno il grande peso acquisito in una eventuale trattativa a tutela dei privilegi raggiunti con chiunque sarà al governo.
A sinistra, il PT rappresenta pur sempre la forza più radicata e, se eletto, Lula comincerà il suo mandato alla bella età di 77 anni in un partito che non ha saputo esprimere eredi naturali, dove i quadri stortici sono fuori gioco. Le nuove leve come Guilherme Boulos militano nel Partido Socialismo y Libertad, scissione del PT. O come Manuela d’Ávila, nel Partido Comunista de Brasil.
Fernando Haddad, mandato allo sbaraglio contro Bolsonaro, potrebbe di fatto aspirare alla successione, ma tutto dipende da cosa farà a Sao Paulo. E qualora fosse eletto nello Stato più progredito del Paese, potrebbe essere un buon candidato dopo Lula e soffiare la palla ad Alckmin che di certo vorrà tentare la sorte.
Per l’intanto Lula sta tessendo la più vasta rete di alleanze possibili anche con quelle forze economiche e politiche che hanno fatto fuori Dilma Rousseff. Sta percorrendo quella stessa strada che poi ha portato alla destituzione di Dilma, all’incriminazione di lui Lula e al carcere a Curitiba. L’importante è che si renda conto dei pericoli che essa rappresenta.
Prima di candidarsi si è impegnato in importanti giri all’estero, delineando chiaramente quale sarà la sua agenda una volta eletto, che verte sul ridurre la disuguaglianza, affrontare la questione climatica e creare lavoro. Al momento non ha ancora detto come intende fare tutto ciò, da quali risorse attingere i fiumi di denaro necessari a concretizzare tali politiche. E non risulta nemmeno tanto chiaro in cosa consisterà la riforma fiscale che si rende necessaria. Per intanto sparge cautela a piene mani, sulla scia di un riformismo tranquillo e lontano da ogni radicalizzazione e non scevro da giustificabili semplificazioni dovuti alla campagna elettorale imminente. Tra il ricordo di come è andata a finire nel recente passato con i governi del PT, e un futuro che, se eletto, gli presenterà il conto di una difficile realtà.