Sette organizzazioni non governative hanno comunicato ieri di aver documentato più di quattromila casi di violazioni dei diritti umani durante i primi sei mesi del regime di emergenza decretato in El Salvador con il fine di combattere le cosiddette maras, le bande criminali che infestano il paese.
Questi gruppi sono ritenuti responsabili della maggior parte dei crimini commessi in El Salvador, dove il governo del presidente Nayib Bukele ha fatto approvare il 27 marzo lo stato di emergenza dopo che in pochi giorni erano stati commessi sessantadue omicidi, riportando un livello di criminalità che non si vedeva da molto tempo in quello che è conosciuto come “el pulgarcito (il pollicino) de Centro America”.
Lo stato di emergenza ha introdotto limitazioni alla libertà di associazione, sospendendo il diritto di una persona di essere debitamente informata dei suoi diritti e dei motivi dell’arresto, così come l’assistenza di un avvocato. Con il provvedimento, il periodo di detenzione preventiva è passato da settantadue ore a quindici giorni e permette alle autorità di intervenire sulla corrispondenza e sui telefoni cellulari di coloro che considerano sospetti. Il regime di emergenza è stato prorogato l’ultima volta il 14 ottobre, e le autorità hanno detto che continueranno a chiedere ulteriori estensioni fino a che l’ultimo pandillero sarà tolto dalle strade. Stando alle fonti ufficiali, lo stato di emergenza ha consentito di arrestare più di cinquantacinque mila membri delle maras, e ottocento cinquanta sospettati sono già stati rilasciati.
Diversa invece la valutazione delle sette ONG che hanno presentato alla stampa un report in cui denunciano casi di persone che dicono di essere state vittime di abusi da parte della polizia e dei militari, con arresti arbitrari, molestie, minacce e persino lesioni che si sarebbero verificati dal 27 marzo al 30 settembre. Autori del report sono Cristosal, la Fondazione per l’applicazione del diritto, il Servizio Sociale Pasionista, la Rete salvadoregna dei difensori dei diritti umani, AMATE, AZO, e l’Istituto dei Diritti Umani dell’Università Centroamericana José Simeón Cañas.
Cristosal assicura di avere segnalazioni di centocinque persone scomparse, le cui famiglie non sanno dove si trovano dopo gli arresti, e sostiene anche di aver documentato il decesso di ottanta persone quando erano in custodia dello Stato, accusando la polizia civile nazionale di essere responsabile del 76,1% dei casi di violazione dei diritti umani. Le organizzazioni chiedono di fermare quelle che considerano ingiustizie e arbitrarietà a causa della mancanza di un giusto processo e degli abusi di potere da parte delle autorità.
Le critiche delle organizzazioni non governative nazionali e internazionali che hanno chiesto un trattamento migliore per i detenuti non sono una novità. “Le organizzazioni chiedono di fermare le ingiustizie e le arbitrarietà causate dalla mancanza di processi investigativi adeguati, così come di cessare le violazioni dei diritti umani e gli abusi di potere da parte delle autorità pubbliche”, hanno sottolineato. Ma Bukele sostiene che “i diritti umani delle persone oneste sono più importanti di quelli dei criminali”.
A metà agosto, l’allora procuratore per i diritti umani, Apolonio Tobar, aveva comunicato che il suo ufficio aveva ricevuto più di tremila quattrocento denunce. Quanto all’opinione pubblica, un sondaggio dell’Istituto Universitario di Opinione Pubblica (IUDOP) dell’Università Centroamericana (UCA) rivela che la metà della popolazione salvadoregna dice che il regime di emergenza “non risolverà il problema” delle bande, ma il 75,9% approva la misura.
Il prolungato stato di emergenza ha avuto anche conseguenze sulla libertà di stampa in El Salvador, dove l’Associazione dei giornalisti (APES) ha recentemente denunciato che tra gennaio e ottobre 2022 si sono verificate ottantasei aggressioni e l’abbandono del paese da parte di dieci operatori dell’informazione, principalmente a causa delle riforme penali che puniscono la pubblicazione di notizie relative alle bande.
APES aveva anche ricordato che all’inizio dell’anno gli smartphone di più di trenta giornalisti erano stati messi sotto controllo con il software di spionaggio Pegasus, e che al riguardo aveva presentato una denuncia alla Procura Generale (FGR), pur non credendo “che ci sarà un’indagine completa e rapida”.
Quanto ai dieci giornalisti che “sono stati costretti a lasciare il paese” in modo preventivo , lo hanno fatto in seguito alle riforme del codice penale “che puniscono con il carcere fino a quindici anni i giornalisti che pubblicano informazioni relative alla questione delle bande”. Una situazione che, continua APES, “dimostra chiaramente il livello di violazione in cui ci troviamo come associazione giornalistica, senza tener conto dei casi di autocensura che si stanno verificando nei giornalisti e nei media”. Le riforme del codice penale successive all’introduzione dello stato di emergenza proibiscono agli organi di informazione “la riproduzione e la trasmissione alla popolazione in generale di messaggi o comunicati originati o presumibilmente originati da tali gruppi criminali, che potrebbero generare ansia e panico nella popolazione”. Il sindacato giornalistico salvadoregno ha giudicato questi emendamenti come una “riforma bavaglio” e, insieme all’organizzazione umanitaria Cristosal, ha chiesto alla Camera Costituzionale della Corte Suprema di Giustizia di dichiararli incostituzionali.