Un presidente decide di sciogliere il parlamento, e lo stesso giorno i deputati reagiscono destituendo il presidente. Questo è quanto è successo mercoledì in una Lima improvvisamente preda di una tensione di cui non avrebbe avuto bisogno, che con il passare delle ore si è andata stemperando quando si è finalmente capito che l’auto golpe tentato da Pedro Castillo segnava l’epilogo della sua non lunga gestione e la ripetizione di quanto era già capitato nel 2019 all’allora presidente Martín Vizcarra. Con tutta probabilità, rappresenta anche la pietra tombale della parabola politica di questo personaggio, il cui discorso anti sistema e le cui origini contadine avevano acceso speranze di cambiamenti che non sono venuti. Riuscendo Castillo, durante il suo mandato, perfino ad allontanarsi dalla base sociale che lo aveva sostenuto.
Ma andiamo con ordine. Entrato in carica il 28 luglio dello scorso anno dopo aver vinto di misura la sua avversaria Keiko Fujimori, Pedro Castillo ha dovuto fare i conti con gli scarsi margini di manovra parlamentare che il risultato elettorale gli aveva riservato. In un Congresso dove l’opposizione poteva contare 80 dei 130 deputati, ad affiancare il presidente peruviano rimanevano i 37 deputati dello schieramento di sinistra che lo ha appoggiato (Perù Libre), mentre Fuerza Popular della sua diretta avversaria Fujimori era risultato il secondo partito più votato con 24 seggi. Questa realtà ha consegnato all’ex maestro di San Luis de Puña, figlio di contadini analfabeti, un quadro politico che definire complesso è riduttivo. In breve, il suo anno e mezzo scarso di mandato ha segnato una traiettoria di scandali per corruzione e di promesse non mantenute.
Data la situazione, dal giorno dopo il suo insediamento è iniziato un lungo braccio di ferro tra esecutivo e parlamento, che ha spinto Castillo a minacciare più volte di sciogliere l’assemblea legislativa per andare a nuove elezioni. Le già difficili relazioni politiche venivano poi aggravate da scelte sbagliate da parte del presidente, che si è visto costretto a rinnovare il suo gabinetto per ben cinque volte, e che è stato invischiato in ricorrenti accuse di corruzione che vedevano coinvolto lui e membri della sua famiglia. Sia per i passi falsi nella scelta dei suoi collaboratori sia per le gravi accuse di malversazioni, nell’impossibilità di battere strade differenti, l’opposizione ha messo in campo in questi mesi tre tentativi di destituirlo in base a quanto prescritto dalla Costituzione. L’ultimo, quello di mercoledì, è andato finalmente a buon fine. Questa breve premessa consente di comprendere lo snodarsi della crisi peruviana fino al suo epilogo con Castillo ammanettato portato via in un auto in stato di arresto. Mentre la sostanziale impasse legislativa provocata dallo scontro senza fine tra esecutivo e parlamento giustifica l’assenza di fiducia da parte dei peruviani che la politica possa risolvere i loro problemi.
Sapendo che il Congresso era convocato per le 15 di mercoledì per discutere del suo impeachment, a Castillo non è rimasto che cercare di giocare in contropiede e dal canale televisivo nazionale ha annunciato la sua decisione di sciogliere il parlamento e istituire un “governo d’eccezione” motivandolo con l’ostruzionismo da parte del legislativo di cui il suo governo fin dall’inizio è stato vittima. Una mossa che avrebbe potuto precipitare il Paese nell’abisso tenendolo per ore col fiato sospeso. Per quanto l’ipotesi di uno scioglimento anticipato fosse girata in altri momenti nel mondo della politica peruviana, la notizia ha avuto l’effetto di una bomba perché a nessuno è sfuggito come essa fosse legata al voto per la destituzione del presidente, ovvero alla sua salvezza personale. Tutti gli schieramenti concordemente l’hanno definita un colpo di stato, e la conclusione è stata che il Congresso si è convocato in una sessione straordinaria con lo scopo di votare la decadenza del presidente per “incapacità morale.”
Nel suo messaggio, pronunciato dopo poco mezzogiorno indossando la fascia presidenziale per sottolineare la solennità del momento, Castillo aveva dichiarato che “in risposta alla richiesta dei cittadini in tutto il Paese, abbiamo preso la decisione di dare vita a un governo d’eccezione con lo scopo di ristabilire lo stato di diritto e la democrazia”. Ha detto che il suo governo ha invitato l’opposizione al dialogo senza che mai da questa venisse un risposta positiva, e ha criticato il fatto che il parlamento non ha preso in esame i settanta disegni di legge inviati dall’esecutivo.
Oltre allo scioglimento del Congresso, Castillo ha annunciato che avrebbe convocato nuove elezioni legislative, governato mediante decreti legge fino all’’insediamento del nuovo parlamento, riorganizzato la magistratura, la procura della Repubblica che sta indagando su di lui, e la Corte Costituzionale che ha dichiarato infondate diverse sue richieste contro il legislativo. Con ciò, in parole povere, Castillo ha tentato di mettere fuori gioco altri poteri dello Stato con cui è entrato in attrito. Seguiva la confisca delle armi in possesso ai civili, e l’assicurazione indirizzata al mondo degli affari che “il modello economico basato su un’economia sociale di mercato sarà scrupolosamente rispettato”, e “la proprietà privata è rispettata e garantita”. Per concludere e per far capire che faceva sul serio, ha annunciato di voler introdurre il coprifuoco dalle 22.00 alle 04.00 del 7 dicembre.Tutti gli osservatori concordano che se il tentativo di Castillo avesse avuto successo, il Perù avrebbe fatto un gigantesco passo indietro sul piano delle libertà. Ed ai più la condotta del presidente ha fatto venire in mente l’Alberto Fujimori dell’aprile del 1992, e la sua decisione di chiudere il Congresso e di voler intervenire sul potere giudiziale.
Dopo l’annuncio di Castillo, i ministri dell’economia, della giustizia, del lavoro e degli affari esteri, così come l’ambasciatore del Perù all’ONU, hanno annunciato le loro dimissioni. Perfino il suo avvocato ha fatto sapere di voler rinunciare a rappresentare il suo cliente. Castillo si è ritrovato solo. Ma è stata la risposta del Congresso quella che non si è fatta attendere. Cancellando le ore di dibattito che erano previste e in cui era stato programmato uno spazio di un’ora per Castillo per difendersi con il suo avvocato, con 101 voti a favore, 6 contrari e 11 astensioni ha decretato la sua decadenza, superando abbondantemente il numero degli 87 voti necessari per mandarlo a casa. Subito dopo il presidente del Tribunale costituzionale Francisco Morales ha fatto appello alle Forze Armate affinché “ristabiliscano l’ordine costituzionale” affermando che “è stato fatto un colpo di Stato nel più puro stile del XX secolo”, e che era previsto che Dina Boluarte, anche lei come Castillo proveniente da Perù Libre, nonché vice presidente, avrebbe assunto la massima carica. Boluarte, un’avvocata sessantenne, ha giurato mercoledì pomeriggio diventando la prima donna che assume la presidenza del Perù. Con il suo giuramento, la fase acuta della crisi si può dire conclusa. Difficile credere che sia alle spalle la crisi politica che in Perù negli ultimi sei anni ha visto avvicendarsi sei presidenti. Nella estesa atmosfera di corruzione che non ha risparmiato le istituzioni, compreso il parlamento, una via d’uscita sarebbe quella che le forze che in questa vicenda si sono ritrovate nel respingere la deriva autoritaria intrapresa da Castillo accettassero di andare rapidamente a nuove elezioni maturando uno spirito nuovo. Uno spirito che potremmo definire costituente. Ma vista la situazione in cui versa il Paese, probabilmente è ottimistico sperarlo.
Quanto a Castillo, finalmente la stampa peruviana ha reso noto nella tarda serata di mercoledì che aveva lasciato il palazzo presidenziale ed stato trasferito al carcere di Barbadillo dove ha passato la sua prima notte in detenzione. È lo stesso istituto dove è detenuto anche l’ex presidente Alberto Fujimori. Vi passerà le prossime 48 ore in compagnia di Aníbal Torres, il giurista ed ex presidente del Consiglio dei Ministri che assumerà la sua difesa contro le accuse di ribellione e cospirazione che gli vengono mosse.