Il primo gennaio di trenta anni fa, il mondo venne a sapere che un esercito di contadini i cui volti erano coperti da passamontagna neri e che imbracciavano per lo più fucili di legno era comparso nelle stradine di San Cristóbal de las Casas, la capitale del Chiapas, regione sudorientale del Messico a forte presenza indigena, occupando la notte precedente varie località.
Ci si rese allora conto che nella più completa clandestinità si era andata formando una strana guerriglia che aveva preso il nome di Ejército Zapatista de Liberación Nacional (Ezln) e aveva la sua base nella Selva Lacandona, a pochi chilometri dalla capitale dello stato.
Quanto alla popolazione di San Cristóbal che festeggiava noche vieja, il capodanno, superato il primo momentaneo stupore, in gran parte solidarizzò con gli insorti, offrendo loro cibo e bevande calde. A poco tempo dai fatti, un docente spagnolo dell’Università di Tuxtla Gutiérrez, che fu testimone di quanto era accaduto, mi descrisse una sera a San Cristóbal l’atmosfera quasi di festa che aveva connotato l’arrivo degli zapatisti in città. Come se avesse saputo anticipare ciò che lo stesso subcomandante Marcos avrebbe dichiarato nel marzo del 2001 alla Bbc dopo la lunga marcia che aveva portato l’Ezln a occupare in massa lo zócalo di Città del Messico. Ovvero, che quella dell’esercito zapatista era una rivoluzione diversa da quella in cui aveva creduto e per cui era morto il Che, e che agli indigeni col passamontagna “era estranea ogni intenzione di andar a far parte del martirologio della sinistra mondiale o messicana.”
Ciononostante, poco tempo dopo l’arrivo in forze dell’esercito regolare, la festa si trasformò in tragedia, e arrivarono i morti, e la lotta che era scaturita dalla necessità di ottenere “rispetto e dignità” per i numerosi popoli indigeni del Messico sembrò autoconfinarsi nel territorio della Selva Lacandona, tenuta a bada da un cordone di sicurezza militare.
I controlli, anche dopo settimane dagli scontri, erano garantiti da diversi posti di blocco, e per passare per località dove si era sparato, come Ocosingo, ho dovuto dare ai militari, armati fino ai denti, il mio passaporto, i cui dati venivano segnalati via radio ai commilitoni che presidiavano la strada all’uscita del paese. Stessa sorte, ovviamente, toccava a tutti quelli che incappavano nei vari posti di blocco dell’esercito messicano sparsi sul territorio. Il tutto in un clima di tensione che si tagliava a fette, dove cominciava a farsi strada il sospetto che il governo avesse voluto drammatizzare la situazione per fini politici, usando la mano pesante.
Al cessate il fuoco di fatto seguirono le lunghe trattative a San Cristóbal, e lentamente una guerra che avrebbe potuto trasformarsi in un evento sanguinoso, come già era avvenuto per tante guerriglie sudamericane, si andò caratterizzando come uno scontro in cui da una parte e dall’altra non si sparava un colpo.
Il confronto avrebbe nel tempo saputo scansare con grande intuito politico le pressioni che agli zapatisti erano provenute da due lati. Dalla destra perché abbandonassero le armi e abbracciassero la logica della politica; dalla sinistra affinché a una lunga fase di armistizio facesse posto una radicalizzazione dello scontro. Per fortuna le comunità governate dagli zapatisti non seguirono nessuno dei consigli ricevuti, e nel corso degli anni hanno saputo incassare risultati tangibili nel miglioramento delle condizioni di vita che hanno riguardato tutti i popoli indigeni, recepite anche dalla carta costituzionale del paese. Negli anni, l’Ezln aveva scelto la via “pacifica” nella sua lotta contro lo Stato. La costruzione di un mondo diverso, basato su un sistema socio-economico-politico differente da quello capitalista, invece della guerra aperta e diretta contro di esso. All’inizio della presidenza di Vicente Fox, Marcos ebbe a dichiarare alla Bbc che “la nostra specialità è attendere e resistere. Attenderemo ancora che venga qualcuno che sul serio abbia la volontà di giungere a una soluzione.” E così infatti avvenne.
Se la strategia di attesa ha evitato un bagno di sangue e ha portato risultati concreti, non tutti gli obiettivi e le speranze che avevano spinto al “levantamiento” del primo gennaio del 1994 sono stati ottenuti. E lo scopo finale dello zapatismo, che era quello di reintegrarsi nella vita civile del paese, è stato solo parzialmente realizzato.
La scelta di continuare a vivere nella Selva Lacandona ha permesso di mettere in piedi un processo di restituzione ai cittadini delle comunità del diritto fondamentale di decidere come governarsi. Lasciando per sempre alle spalle il marchio odioso che essere nato indigeno significa essere povero e vivere nella miseria. A tal punto, forse, che il risultato più tangibile pare essere il cambiamento della percezione dell’indio avvenuta in tutto il Messico.
Questo era il vero obiettivo della sollevazione di Marcos e compagni, al cui orizzonte politico è sempre stata estranea la conquista del potere. E questa è l’altra sostanziale differenza che la allontana dall’esempio del Che e delle formazioni che lo hanno seguito nella teoria del foco guerrillero. Dal canto suo Marcos, onestamente, l’ha sempre dichiarato, ridimensionando cortesemente i sogni dei molti turisti della rivoluzione che negli anni gli hanno fatto visita.
L’altro sostanziale punto in cui l’esempio zapatista si discosta dalle altre sinistre latinoamericane riguarda la decisione assunta fin dalle origini di non affidare il proprio destino a un leader carismatico: il vero male di cui soffrono la quasi totalità dei paesi in cui governa la sinistra, anche in quelli che, pur bolivariani, dimenticano quel che Bolívar stesso raccomandava riguardo al necessario ricambio delle classi dirigenti.
Lo stesso Marcos – non a caso, come tutti gli altri dirigenti zapatisti, subcomandante perché “chi comanda è la mia comunità” – ha dismesso il nome di battaglia con cui è diventato un’icona. Ed è rientrato nei ranghi nel 2014 col nome di Galeano in onore ad un maestro di una scuola zapatista assassinato quell’anno. E, dopo nove anni, anche il subcomandante Galeano lascia la scena e Marcos riprende il “suo” nome, ma questa volta si firma Capitano Insurgente Marcos. Di comandanti ce ne sono a decine nell’Ezln; di subcomandanti, solo uno. Morendo, il subcomandante Galeano (alias Marcos) lascia il ruolo di vocero (portavoce) e di rappresentante dell’Ezln alle nuove generazioni, riprendendo il suo nome di battaglia iniziale ma con un ruolo di semplice comandante. “Ogni leader, aveva sostenuto Marcos in passato, deve capire che i processi di liberazione sono frutto di sforzi collettivi, e non di individualità.”
A distanza di trent’anni dall’insurrezione, in Chiapas la violenza sta esplodendo e le comunità zapatiste sono sotto costante attacco di paramilitari, narcos e dello Stato. Un recente comunicato dell’Ezln definiva la situazione “sull’orlo della guerra civile” a causa del narcotraffico, della violenza dei paramilitari e della crescente militarizzazione delle forze di polizia promossa dal governo di López Obrador. Le comunità zapatiste sono sotto costante assedio da parte di gruppi armati, dell’esercito e dello spionaggio del Ministero della Difesa Nazionale (Sedena). Nel corso degli anni, gli zapatisti si sono anche impegnati contro alcuni mega progetti come il Tren Maya, 1500 chilometri di rotaie che mettono a serio rischio la selva yucateca. O come il Corridoio Interoceanico, una alternativa via terra al Canale di Panama, un collegamento tra il Pacifico e l’Atlantico, che si prevede di realizzare sfruttando l’istmo di Tehuantepec, dove il territorio messicano forma una strettoia di 300 km tra le sue due coste sugli oceani. Motivi, tra gli altri, che ben spiegano l’atteggiamento ostile da parte del governo di Andrés Manuel López Obrador.